Güllüdere and Kızılçukur – la Valle delle Rose e la Valle Rossa in Cappadocia

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Il Comitato scientifico della Fondazione Benetton Studi Ricerche ha deciso di dedicare la trentunesima edizione del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino a un luogo dell’Asia Minore che emerge dalla lunga vicenda storica e geografica della Cappadocia: due valli contigue scavate nella roccia vulcanica, la Valle delle Rose e la Valle Rossa, in lingua turca Güllüdere e Kızılçukur.

Al centro della penisola anatolica, da sempre ponte per culture diverse tra l’Asia e l’Europa, tra il Mediterraneo e il Mar Nero, la Cappadocia si estende con i suoi altipiani a mille metri di altitudine e circondata da vulcani imponenti. Il suolo è arido, scavato dall’acqua e dal vento; il clima difficile. Tutto questo forma lo scenario naturale di una regione che vede, fin dal primo secolo, l’arrivo del primo cristianesimo e dei padri della chiesa, e poi il diffondersi della cultura bizantina, che con i suoi innumerevoli insediamenti eremitici e monastici, chiese e santuari formerà una delle più importanti comunità cristiane del primo millennio. A tutto questo corrispondono spazi che oggi si rivelano con cicli pittorici straordinari, edifici sacri e manufatti dispersi in un vasto territorio, che a partire dal secolo XIII, con la scomparsa della presenza bizantina, diventeranno stalle, abitazioni rurali e cisterne, e una moltitudine di piccionaie che procurano a chi coltiva la terra il guano necessario alla fertilità dei campi.

Le due valli emergono da questo contesto, e ci mostrano la misura e il valore profondo di un paesaggio nel quale le forme dell’insediamento umano e la dirompente natura geologica del suolo conservano le tracce di un’antica cultura dell’abitare prevalentemente rupestre, in condizioni di equilibrio tra le diverse manifestazioni della natura e delle culture che l’attraversano nel susseguirsi dei secoli.

Nello stesso tempo qui tutto ci parla delle contraddizioni della società di oggi, come l’abbandono dei luoghi, il loro consumo connesso al turismo di massa e ai suoi tempi, ma anche, insieme, della necessità di cercare e coltivare uno sguardo diverso, ricavando da ciò che a fatica rimane e si rigenera, una nuova visione degli strumenti di lavoro, delle relazioni umane, delle forme di governo necessarie a far crescere una coscienza del paesaggio orientata all’accoglienza e all’approfondimento più che al rapido consumo.

Non lontano da Göreme (tra le due principali città della Cappadocia, Nevşehir e Kayseri) e lungo la strada che dal villaggio di Çavuşin conduce a Ortahisar, la Valle Rossa e i due rami della Valle delle Rose si aprono e corrono in forma quasi parallela fino ad arrestarsi, a est, alla base del massiccio che le separa dalla Valle di Zelve. Le collegano ripidi sentieri e scale incise nella roccia, scavalcando gli altipiani che si alternano in questo territorio leggibile solo attraverso passi lenti e relazioni tangibili, senza le quali risulta difficile cogliere l’eccezionale, fragilissima natura di questi luoghi, spesso condannati a un’unica, immediata percezione: quella che associa la morfologia delle rocce dilavate e costantemente erose all’immagine fissa e seducente di figure fantastiche come quelle dei “camini delle fate”.

L’area che contiene le due valli ha un’estensione di circa 3 chilometri quadrati, ed è caratterizzata da un ambiente dal clima secco, scarsissimo di acqua, nel quale l’uomo scavando la roccia ha trovato da sempre il necessario riparo dai rigidi inverni e dalla calura estiva di questi territori d’alta quota.
Profondamente incise nel terreno dell’altopiano, le due valli si dispongono in sintonia con un processo in continua evoluzione, connesso alle stratificazioni geologiche di natura vulcanica che spiegano l’origine della forma degli insediamenti, la fertilità del suolo e la singolare adattabilità della roccia alle esigenze che l’uomo e gli animali hanno avuto per costruirsi un rifugio.

Lungo i solchi scavati dall’acqua, percorribili nei fondivalle, si snoda una fitta sequenza di campi coltivati e terrazzamenti con alberi da frutto e vigneti, ordinatamente disposti a costituire un mosaico di forme interrotte da strade incerte che ricalcano il greto di un torrente, dal fianco di una parete rocciosa, da infiniti varchi e fessure che annunciano all’esterno la ricca articolazione di ambienti scavati nel buio della massa rocciosa.
Il luogo è dunque un invito alla conoscenza, che prevede da un lato forme di accostamento lento, e dall’altro l’accettazione della dimensione invisibile di un paesaggio nel quale l’uomo ha trovato spazio e accoglienza nella viva roccia, disegnando ambienti di vita che oscillano tra il buio e la luce, tra lo scavo del tufo e la coltivazione di un suolo originato dal disfarsi di quella stessa roccia abitata.

Le valli sono disseminate di chiese e complessi monastici, per lo più ricavati per sottrazione dalla roccia: architetture complesse, ricche di cicli pittorici che ne rivestono i volumi scavati, ambienti invisibili dall’esterno, se non per il crollo di un muro o lo sfaldarsi di una parete. Le superfici dipinte riemergono da densi strati di fuliggine e secoli di sfregi: apparizioni parziali, ma sufficienti per capire il valore di una fase storica che ha visto la cultura bizantina caratterizzare per alcuni secoli la vita sociale e l’ambiente di questa regione.

 

Nelle valli, sono tuttora le chiese a segnare le coordinate di questa rete di relazioni appena visibile: con i loro interni densi di richiami al paesaggio che le ha generate ci aiutano a capire e penetrare il senso di questi luoghi. Alcune sono raccolte nella struttura compatta di un cono tufaceo, altre scavate a ridosso di una parete rocciosa: le prime, quelle di Sant’Agatangelo (detta anche Chiesa delle Tre Croci, in turco Üç Haçli Kilise), di San Giovanni (detta anche Chiesa della Mela Cotogna, in turco Ayvalı Kilise) e dello Stilita Niceta (detta anche Chiesa dell’Uva, in turco Üzümlü Kilise) ci invitano a cercare dei varchi di accesso tra le scale e gli stretti passaggi dell’ambiente rurale; le seconde, quella delle Colonne e quella dei Santi Gioacchino e Anna, sono più accessibili e sulla strada maestra, dietro a pareti che l’erosione continua rende sempre meno spesse e sicure.

La Cappadocia, per molto tempo ignorata, raramente descritta dai viaggiatori europei e solo a partire dal Settecento, verrà “scoperta” all’inizio del secolo XX, con l’avvio di una stagione di esplorazioni e di studi lungo la quale si colloca, nel 1969, lo sguardo acuto di un poeta italiano, Pier Paolo Pasolini che da regista conduce in questo mondo di natura rupestre, «tra il rosa e l’ocra povero», la narrazione di una sua opera, Medea.

Quella che allora era ancora un’avventurosa esplorazione, diventa in seguito una presa di coscienza più larga nella direzione della tutela di questi luoghi e del riconoscimento del loro valore culturale, culminata nel 1985 nella designazione da parte dell’UNESCO di sito del patrimonio mondiale (attribuita in particolare al «Parco Nazionale di Göreme e ai siti rupestri della Cappadocia»). Ma ciò che ora è sottoposto a una tutela internazionale si confronta aspramente con le molte contraddizioni di una società locale e globale che vive nella presenza turistica una straordinaria opportunità economica ma anche una grande insidia per l’integrità e un futuro possibile degli stessi beni comuni dell’umanità sottoposti a tutela.

In un contesto di rapidi cambiamenti, di evidente abbandono dei paesaggi tradizionali, di apparizione di nuovi usi e forme insediative connessi al turismo di massa, tra il fiorire di studi e scoperte di questo immenso patrimonio storico, si distingue la presenza di un gruppo di lavoro italiano che opera in particolare nella direzione del recupero dei preziosi cicli pittorici celati nelle chiese rupestri, instaurando importanti relazioni umane e culturali e restituendo con questo lavoro leggibilità e valore a un intero paesaggio. Un lavoro che incarna il senso di una cittadinanza, la misura dell’appartenenza e della cura nei confronti di un luogo che travalica ogni confine nazionale.

Per queste ragioni il Comitato scientifico della Fondazione Benetton Studi Ricerche ha deciso di affidare il “sigillo” disegnato da Carlo Scarpa, simbolo della trentunesima edizione del Premio, alla storica dell’arte Maria Andaloro, ideatrice e coordinatrice della missione di ricerca che fa capo all’Università della Tuscia, e che dal 2006, a cavallo tra l’Italia e la Cappadocia, sviluppa un lavoro capace di coniugare lo sviluppo e la trasmissione costante di attenzioni e saperi con la crescita di uno sguardo sul paesaggio in chiave di appartenenza e di responsabilità.

Questa trentunesima edizione si presenta eccezionalmente “biennale”, 2020-2021, in conseguenza delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria, che hanno determinato una nuova articolazione delle tappe pubbliche del progetto, articolazione che ha avuto inizio il penultimo fine settimana di ottobre 2020 e si è conclusa a maggio 2021, cogliendo l’opportunità di costruire diverse occasioni di approfondimento.