Dialoghi tra un botanico e un ornitologo

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Il libro “Dialoghi tra un botanico e un ornitologo” è scritto a due mani da Angelo Meschini e Carlo Mascioli sotto forma di dialogo, appunto. I due autori s’interrogano a vicenda sulle relazioni tra piante e uccelli, sull’ecologia e sull’etologia, andando a descrivere i diversi tipi di habitat che si possono incontrare in Maremma, con particolare riferimento a quella laziale e della bassa Toscana. Il dialogo non è solo un pretesto letterario, infatti il libro prende spunto da reali conversazioni che i due autori affrontano insieme, da circa trent’anni, durante le uscite in natura. Così, con il fluire dei discorsi, vengono descritte 172 specie di piante, 165 di animali e 9 di funghi, trattate in chiave ecologica, con riferimento all’ambiente mediterraneo, dalle coste all’entroterra, dagli ambienti a massima naturalità fino ai centri urbani.

La prima parte del volume è prevalentemente dedicata agli ecosistemi arborei e forestali e la conversazione si svolge secondo un filo conduttore rappresentato da due punti di riferimento fondamentali: la funzionalità degli habitat e il paesaggio.

“Una piuma bianca discendeva piano e la potevi guardare in filigrana. Il candore contrastava con il verde smeraldo dei pini d’Aleppo Pinus halepensis e gli appena più chiari pini domestici Pinus pinea. Le pinete costiere mediterranee ospitano, in maniera molto discontinua, le cosiddette “garzaie”. Queste formano meravigliosi assembramenti di aironi nidificanti, con il loro vociare roco, il baluginare delle penne e un odore discretamente “forte” per utilizzare un eufemismo. La nostra garzaia polispecifica ospitava aironi guardabuoi Bubulcus ibis e garzette Egretta garzetta. I nidi erano posti quasi integralmente su pini d’Aleppo, probabilmente per la conformazione più “stretta” dei globi che edificano la chioma. La scienza remunera con immani gioie: le creste dei giovani “guardabuoi” che si intrecciavano in finte lotte giovanili, le “aigrettes” bianchissime degli adulti di garzetta che si muovevano al vento come una distesa di stipe in una steppa pannonica, l’estasi di quei momenti fuori dal tempo in un gineceo arcaico e meraviglioso a poche centinaia di metri da sparse costruzioni abusive e dal frastuono dei motori”.

“Certamente il pino domestico deve il suo enorme successo, oltre che alla resina, ai suoi semi, i pinoli, apprezzati già in epoca romana e ancora ai giorni nostri. Sin dall’antichità ammirato per il suo portamento così peculiare, ancora oggi è uno degli alberi ornamentali più presenti nell’Italia centrale, un vero e proprio simbolo. Purtroppo in questi ultimi decenni assistiamo a un’inversione di tendenza nei gusti e nelle mode: il pino domestico, piantato lungo le strade, nelle piazze, nei giardini e nei cortili condominiali, è diventato vittima di una vera e propria persecuzione. Non ci piace più, spesso ha radici invadenti per le nostre pavimentazioni stradali, ultimamente ci fa anche tanta paura a causa dei frequenti crolli che si verificano, con toni esageratamente allarmistici raccontati sui giornali (“pini killer”).

Perciò, su questi sventurati pini, quando non vengono subito abbattuti, si accaniscono stuoli di sedicenti potatori, di cittadini e amministratori incattiviti: senza alcuna conoscenza sul modo di funzionare degli alberi, a cominciare dal ruolo fondamentale della fotosintesi clorofilliana, senza alcuna competenza nel campo della moderna arboricoltura, si pretende di alleggerirli dal peso della chioma asportandone gran parte, nella convinzione di ridurre un fantomatico “effetto vela” e facilitare il passaggio del vento, ma di fatto stravolgendone l’assetto aerodinamico; si pretende di cambiare la peculiare forma amputando grandi rami.

Così i nostri bei pini sono diventati oggi alberi strani e sinistri, innaturalmente snelli, altissimi, fino ad altezze che mai raggiungerebbero spontaneamente, leve lunghissime particolarmente fragili, grotteschi e dinoccolati giganti sempre meno assomiglianti a quell’albero tozzo, basso e tarchiato, con la sua chioma piatta ed espansa, che sarebbe il domestico senza il nostro zampino, così come lo possiamo ancora ammirare lungo l’Aurelia, a fianco delle rosse case cantoniere”.

Oltre agli ecosistemi “naturali” e forestali, un’ampia trattazione è dedicata alle aree agricole, ambienti particolarmente fragili descritti in chiave agroecologica.

“Allo stato attuale gli oliveti ricoprono enormi superfici laddove un tempo crescevano boschi mediterranei (lecceta, macchia) e boschi più mesofili (querceti): questo è un dato non solo d’importanza paesaggistica – come potremmo fare a meno delle pennellate d’argento dell’olivo Olea europaea sul mosaico di verdi che è il tessuto rurale e forestale dei nostri territori? – ma anche di notevole rilevanza ecologica. Al posto di quelle foreste che furono non vi sono oggi semplici coltivazioni erbacee, ma oliveti, cioè agrosistemi relativamente complessi paragonabili, per alcuni aspetti, a dei boschi: protezione del suolo, presenza di una diversificata gamma di microrganismi del terreno, offerta alimentare per numerosi animali, opportunità per nidificazioni anche per specie tipiche di cenosi mature, sono fattori che caratterizzano gli oliveti come gli ecosistemi agrari più strutturati e ricchi. Ovviamente, più ci si allontana da una conduzione biologica e si va verso un’agricoltura intensiva, più si impoverisce l’agrosistema oliveto e si determinano effetti nocivi per l’ambiente”.

“Questi habitat artificiali ospitano una fauna veramente interessante. Del resto si può fare un parallelismo tra l’ulivo e un piccolo passeriforme dei silvidi, l’occhiocotto Sylvia melanocephala. Entrambe specie circum-mediterranee, hanno areali decisamente sovrapposti, rappresentando due emblemi della mediterraneità. Un altro uccello nidificante tipico degli uliveti, per il quale anzi l’olivo è probabilmente il sito più utilizzato in assoluto, è il rampichino comune Certhia brachydactyla, un minuscolo passeriforme che usa le fessurazioni dei vecchi ulivi per deporre le uova in quel gineceo contorto. Il rampichino scandaglia a fini alimentari la corteccia degli alberi partendo dal basso verso l’alto e mai il contrario ed è divertente paragonarlo per questa caratteristica al picchio muratore Sitta europaea, che fa la stessa cosa ma discendendo la corteccia, come se nei tronchi ci fosse una sorta di senso unico alternato”.

Così, passando per prati sassosi e ambienti steppici, per siepi camporili e filari arborei, per ambienti palustri e fluviali, affrontando senza pregiudizi concetti controversi come le specie alloctone o le erbe cosiddette infestanti, il libro si conclude con l’ecosistema urbano, ricco di un’inaspettata biodiversità e complessità. Questo è la sintesi di paesaggi diversi, frequentemente sovrapposti, in cui la flora spontanea residuale preesistente alla città, o quella sfuggita dalle coltivazioni, si accompagna con quella utilizzata dall’uomo per la creazione di parchi, giardini e alberature stradali.

“Consentimi un paragone un po’ ardito, ripensando a quanto abbiamo finora detto degli ambienti rurali e naturali e immaginando di osservare una città dall’alto: le superfici asfaltate e cementate, per la scarsità di vita animale, sono assimilabili alle aree agricole semplificate e intensamente coltivate (a cereali, a ortaggi, a nocciòlo), dove la fauna non trova opportunità di sopravvivenza a causa dei pesticidi e delle lavorazioni. La flora ruderale dei muri e dei marciapiedi, oltre a quella dei balconi, offre agli animali rifugio e risorse trofiche proprio come accade alle siepi camporili e agli alberi isolati; i parchi e i giardini sono paragonabili ai boschi residui che spezzano la monotonia dei seminativi e delle superfici a pascolo; le alberate stradali si comportano alla stregua delle formazioni ripariali, con l’importantissima funzione di corridoi ecologici”.

L’ambiente urbano è caratterizzato dal particolare microclima, riassumibile con il concetto di “isola di calore” e dalla prevalenza di substrati lapidei: questi due fattori determinano un elevato “grado di mediterraneità” anche nelle città più lontane dal mare, consentendo la vita a piante xerofite e termofile come il cappero Capparis spinosa e a uccelli originari delle scogliere a picco sul mare, come il piccione domestico Columba livia var. domestica, specie che a causa della loro predilezione per ambienti costruiti dall’uomo sono definite sinantropiche.

“Per noi umani esiste una differenza netta fra ambienti urbani e ambienti naturali, mentre, bisogna dirlo subito, gli uccelli hanno un altro punto di vista: la loro vita è davvero a tre dimensioni e guardano il mondo dall’alto. Può sembrare sorprendente, ma un grande edificio, magari un grattacielo, allo sguardo di un pennuto non è molto diverso da una falesia marina o da una parete di tufo; una serie di giardini contigui non è poi così dissimile da un ambiente naturale a mosaico. Le città rappresentano un ecosistema molto utilizzato dagli uccelli anche per due altri fattori: le temperature medie sono più alte rispetto a monti, pianure e valli, e soprattutto in città non si esercita l’attività venatoria”.